Questo blog vuole offrire uno spazio di approfondimento, discussione, riflessione, su molte delle problematiche affrontate durante il corso e per introdurne delle altre. Uno spazio didattico quindi ma non solo. Il titolo del blog richiama la necessità che internet sia un luogo-non luogo destinato a tutti, che tutti possano accedere alle rete, che tutti abbiano il diritto alla conoscenza e al sapere e a partecipare all'intelligenza collettiva che internet realizza. L'intervento giuridico deve essere ridotto al minino, la legge statale deve intervenire solo per prevenire e punire la commissione di reati. La vera regola che vige sulla rete è la capacità di autonomia, il senso di responsabilità, di educazione e di rispetto delle regole di netiquette.


lunedì 25 gennaio 2010

Perché il potere ha paura del web

Il nostro obiettivo è cambiare il mondo", è uno slogan di Eric Schmid, il chief executive di Google. Lo stesso Schmid che quattro anni fa, all'inaugurazione del motore di ricerca in mandarino, con l'indirizzo locale segnato dal suffisso ". cn", dichiarò: "Siamo qui in Cina per rimanerci sempre". Ora quelle due affermazioni - cambiare il mondo, rimanere in Cina - sono diventate tra loro inconciliabili. Se Google non accetta le regole di Pechino, e la censura delle autorità locali, la sua avventura cinese dovrà chiudersi. Lo scontro epico che si è aperto fra la più grande potenza di Internet e la più grande nazione del pianeta, è destinato a ridefinire nei prossimi anni l'architettura globale del web, i limiti geopolitici della libertà d'informazione, e il nuovo concetto di sovranità nello spazio online.

Il precipitare degli eventi ha colto tutti di sorpresa, almeno in Occidente. Questo copione non è stato scritto né a Mountain View, il quartier generale di Google nella Silicon Valley californiana, né tanto meno a Washington nelle sedi del potere politico. Negli scenari più pessimisti elaborati dal Pentagono, quando due anni fa l'Esercito Popolare di Liberazione centrò in pieno un proprio satellite in un test di guerre stellari, fu detto che la conquista dello spazio sarebbe stata la prossima sfida tra l'America e la Cina. Nessuno aveva messo in conto quello che sta accadendo da due settimane: l'improvviso gelo tra i soci del G2 per il controllo del cyber-spazio.

Eppure quando Google lanciò la sua versione in mandarino nel 2006, la censura di Stato esisteva già. Come Microsoft, come Yahoo, come Rupert Murdoch, anche il colosso di Mountain View accettò il patto con il diavolo: collaborare con il regime facendo propri i suoi tabù, interiorizzarne i limiti alla libertà di espressione, autocensurarsi con dei filtri di software automatici approvati dalle autorità locali. Sembrava logico. Google si comportava come tante altre multinazionali "normali", separava le regole universali del business capitalistico dal contesto politico locale. Come un qualsiasi fabbricante di auto o di jeans, Schmid pensò di poter chiudere gli occhi sugli abusi contro i diritti umani, e partire alla conquista del più vasto mercato mondiale. Anzi, nel 2006 la questione di coscienza per gli americani sembrava risolta una volta per tutti dalle parole ottimiste di Bill Gates: "Per quanti limiti possano mettere all'attività di Microsoft, l'avvento di Internet introduce nella società cinese un volume d'informazioni senza precedenti. La Cina sarà comunque migliore di prima, grazie a noi". Ai vertici di Google, a onor del vero, non tutti la pensavano così. Sulle condizioni dello sbarco in Cina aveva dei forti dubbi uno dei due co-fondatori dell'azienda, Sergey Brin. Per la sua biografia personale - nato nell'Unione sovietica, emigrò in America da bambino con i genitori - aveva intuito un'incompatibilità insolubile, tra la "natura" profonda del business di Google e quella della Repubblica Popolare.

La casistica dei conflitti tra i regimi autoritari e la libertà online è ricca di precedenti, dall'Iran alla Birmania. Ma la questione cambia completamente quando la posta in gioco è un mercato di 330 milioni di utenti, ormai il più popoloso del pianeta. Il comunicato del governo cinese che stigmatizza Google e ribatte alle critiche di Hillary Clinton, fa esplicito riferimento alle "regole della rete cinese". Nessuno immagina che possa esistere un "Internet iraniano". Ci sono solo le barriere che Teheran frappone per l'accesso locale alla rete: che resta una, indivisa e globale. Ma l'idea che la Cina possa organizzarsi come un cyber-universo autonomo da noi, è altrettanto impensabile?
In Occidente diamo ormai per scontato da anni che la superficie terrestre sia scandagliata minuziosamente da GoogleMap. Ricordo il divertimento con cui mi accorsi, quando abitavo a San Francisco, che dalle foto satellitari si poteva vedere non solo casa mia ma anche la targa della mia auto. Non appena mi trasferii a Pechino nel 2004 scoprii che intere zone della capitale cinese invece erano oscurate, a cominciare dal quartiere di Zhongnanhai dove risiede la nomenklatura comunista. Ciò che a noi appare naturale, o inevitabile, cioè che la mappatura terrestre sia fatta da un'impresa privata americana, non è accettabile a Pechino. E' un'intrusione virtuale nella sovranità: un valore per il quale gli Stati scendono in guerra da secoli. E visto da Pechino il confine che separa un colosso privato come Google dal governo di Washington, è labile.

Ken Auletta, autore del saggio "Googled" (il passivo del verbo "googlare"), osserva che "poche altre tecnologie - la stampa di Gutenberg, il telefono - hanno avuto effetti sociali rivoluzionari come questo motore di ricerca, che ha sconvolto il nostro modo di produrre informazione, selezionarla, consumarla". Ma Internet essendo nato in America, tutta l'organizzazione del world wide web ha un'impronta made in Usa. Porta i segni inconfondibili di un "sistema": regole e valori nati negli Stati Uniti, per estensione occidentali, non necessariamente percepiti come universali a Pechino. Dove noi parliamo di "architettura aperta", altri capiscono "egemonia americana".

La Grande Muraglia di Fuoco, è il nome che i dissidenti hanno affibbiato alla censura online della Repubblica Popolare. E' il più moderno e sofisticato apparato di controllo dell'informazione, con almeno 15.000 tecnici informatici in servizio permanente. Eppure il governo di Pechino ha avuto bisogno fino a ieri di appoggiarsi sul "collaborazionismo" di Google, Yahoo, Microsoft. I dissidenti, o anche i giovani cinesi più curiosi e dotati per l'informatica, hanno appreso ad aggirare la Grande Muraglia. Usano metodi simili a quelli degli hacker: ad esempio per dissimularsi attraverso domicili online all'estero. Sono esattamente i metodi mutuati dai cyber-pirati al servizio del governo, nelle incursioni denunciate da Google il 12 gennaio. Hanno violato la privacy della posta elettronica Gmail di numerosi militanti dei diritti umani; nonché di un grande studio legale di Los Angeles impegnato in un processo contro aziende di Stato cinesi per violazioni di copyright. E hanno profanato le email di 34 aziende hi-tech nella Silicon Valley, un grave episodio di spionaggio industriale che getta un'ombra sulla sicurezza di tutto l'impero Google.

L'esperto d'informatica Holman Jenkins evoca per questa offensiva un precedente poco noto. "All'inizio degli anni Novanta ci fu un'escalation di episodi di pirateria navale nel Mare della Cina meridionale. Hong Kong, che era ancora una colonia inglese, raccolse le prove che i pirati erano in realtà al servizio delle forze armate cinesi. Era un modo per rivendicare la sovranità di Pechino su rotte di comunicazione strategiche". I cyber-pirati che la Cina ha scatenato contro Google, innescando un conflitto che ha portato fino all'intervento dell'Amministrazione Obama, starebbero facendo un gioco simile. Come il corsaro Francis Drake al servizio di sua maestà Elisabetta I contro l'impero spagnolo. In palio stavolta c'è uno spazio virtuale, perfino più strategico delle rotte marittime. La Cina punta molto in alto, se ha sentito il bisogno di intimidire Google fino a mettere in discussione la privacy dei suoi clienti industriali: tutti ormai potenzialmente spiati. I dirigenti della Repubblica Popolare possono immaginare un Trattato di Yalta del terzo millennio, con cui l'America prenda atto della loro sovranità su una parte di Internet. Se passa il loro piano, il discorso visionario di Hillary Clinton che ha esaltato Internet come "il grande egualizzatore", si applicherebbe solo al di qua della Grande Muraglia.

Federico Rampini
www.repubblica.it

giovedì 14 gennaio 2010

Peer to peer, nuova offensiva nel mirino Telecom e utenti

GLI UTENTI e i siti peer to peer italiani sono al centro di una contesa giudiziaria che segna una svolta nella guerra alla pirateria online. La Fapav (Federazione anti pirateria audio visiva) ha chiesto al Tribunale civile di Roma di imporre a Telecom Italia alcune misure straordinarie: primo, obbligare la compagnia telefonica a denunciare alle autorità giudiziarie chi nella propria rete si macchia di pirateria; secondo, impedire l'accesso ad alcuni notissimi siti collegati, anche indirettamente, al peer to peer; terzo, battersi, d'ora in avanti, in prima linea contro il fenomeno.

Se dovesser accettare le richieste di Fapav, quindi, Telecom dovrebbe scoprire quali utenti scambiano file pirata e fare pressioni perché smettano. Nel ricorso d'urgenza presentato da Fapav si legge anche un'accusa alla compagnia: non aver fatto abbastanza finora per dissuadere i propri utenti peer to peer, perché a Fapav risultano "centinaia di migliaia di utenti Telecom" che hanno scaricato film recenti. La Federazione ha addirittura fatto una classifica dei film più scaricati illegalmente: in testa Baaria (600 mila file scambiati), seguito da Il Grande Sogno (300mila), Amore 14 (200mila), Bruno (180mila), Basta che funzioni (178 mila), La Doppia ora (100 mila) e Viola di Mare (60mila).

Fatto sta che Telecom si sta opponendo alle richieste. Non solo: nella propria difesa presentata al Tribunale, accusa a sua volta Fapav di aver monitorato le connessioni degli utenti Telecom, violandone la privacy. Soltanto con questi mezza la Federazione avrebbe potuto ottenere i dati sui film più scaricati. Secondo l'operatore, è una vicenda simile a quella di
Peppermint (azienda discografica tedesca che aveva fatto incetta di dati degli utenti peer to peer italiani). Un caso che si era concluso nel 2007 con la condanna dei discografici, al Tribunale di Roma e da parte del Garante della Privacy. Non si sa in che modo Fapav abbia monitorato il traffico peer to peer, ma forse si è servita di un software ad hoc (Peppermint utilizzava quello di Logistep).

La data dell'udienza non è stata ancora fissata (a differenza di quanto riportato da altri organi di informazione), perché all'ultimo momento è stato cambiato il giudice (adesso è Antonella Izzo). Poiché si tratta un procedimento d'urgenza, però, dovrebbe essere questione solo di pochi giorni.

Un'eventuale condanna cambierebbe di molto le abitudini di navigazione degli italiani. Primo, perché sono milioni gli utenti peer to peer nostrani (8 milioni solo quelli di eMule, secondo Nielsen). Secondo, perché i siti che Fapav vuole oscurare solo molto popolari: c'è The Pirate Bay e poi un gran numero di indirizzi italiani: Italianshare, ItalianSubs, Vedogratis, Youandus, Italianstreaming, 1337x, Dduniverse, Angelmule, Italiafilm, Ilcorsaronero. Alcuni di questi permettono di vedere direttamente film pirata, altri solo di trovarli (a mo' di motore di ricerca). Ma c'è anche il caso di ItalianSubs, che si limita a fornire sottotitoli in italiano a film inglesi che l'utente si deve procurare altrove. Se scaricare e condividere un file pirata è illegale, non è così scontato che lo siano anche tutti quei siti. Solo The Pirate Bay è stato condannato per aver favorito la pirateria: da un tribunale svedese e poi di recente anche dalla Cassazione italiana, secondo la quale è corretto impedire l'accesso a siti che facilitano il download di file pirata. La sentenza della Cassazione forse aprirà la strada a una campagna di denunce, contro siti collegati al peer to peer. Questa della Fapav potrebbe essere solo la prima di una lunga serie.

Alessandra Longo
www.repubblica.it

mercoledì 13 gennaio 2010

Facebook trascina in tribunale chi spinge ai "suicidi" virtuali

ALCUNI preferiscono darci un taglio netto. Altri la fanno finita, ma poi ci ripensano. Altri ancora lasciano che sia un software a effettuare per loro l'ultimo click. È il variegato mondo dei suicidi, o aspiranti tali, virtuali.

Per gioco o perché la dipendenza dai social network è troppo forte, perché si è sfufi del proprio data-body ed è meglio rifarsene uno nuovo, o semplicemente perché è più bello passare il tempo con persone in carne e ossa, sono sempre di più gli utenti che cancellano profili, avatars, feeds, e tracce personali nella fitta rete di relazioni del Web 2.0.

Che il fenomeno abbia raggiunto livelli di guardia è evidente dal fatto che alla defezione personale si stia affiancando un esodo sempre più organizzato, premeditato, collettivo. Due servizi Seppukoo e Web 2.0 Suicide Machine permettono infatti agli utenti di staccare la spina da social network come Facebook, Myspace, LinkedIn e Twitter attraverso una procedura automatizzata.

Lanciati entrambi nel mese di dicembre, i due software sono finiti da qualche giorno sotto il fuoco del team legale di Facebook, che contesta loro la violazione della Dichiarazione dei diritti e delle responsabilità degli utenti Facebook. Non solo, mentre gli avvocati delle parti interessate sono impegnate nelle schermaglie preliminari di quella che potrebbe essere una lunga battaglia legale, Facebook ha bloccato l'accesso al proprio network dai due siti, rendendoli così inefficaci.

Creato da Les Liens Invisibles (Le Connessioni Invisibili), gruppo di net artisti italiani formato da Clemente Pestelli e Gionatan Quintini, Seppukoo permette agli utenti di cancellare il proprio profilo seguendo una procedura "ritualizzata" (il seppuku è il suicidio rituale dei samurai giapponesi). Per effettuarlo l'utente Facebook inserisce il proprio nome utente e password su Seppukoo.com, compone una pagina Web con cui essere ricordato/a, e scrive un biglietto d'addio. Il servizio disattiva l'account, spedisce le sue ultime parole al suo intero network di amici, e gli attribuisce un punteggio. Quanti più amici dell'utente suicidato decidono di imitare il suo gesto, tanto più l'utente ottiene un punteggio alto su Seppukoo.com - un meccanismo volto a incentivare il carattere virale dell'azione. Nel giro di poche settimane infatti, e prima dello stop di Facebook, Seppukoo avrebbe disconnesso circa ventimila utenti. Effettuata la rimozione, il servizio consentiva comunque agli utenti di riattivare il proprio profilo.


Più radicale l'approccio della Suicide Machine, una piattaforma lanciata da poche settimane da Moddr Lab, laboratorio multimediale di stanza a Rotterdam, coordinato dall'artista austriaco di origini bosniache Goran Savicic. In questo caso, una volta lanciata la Suicide Machine, gli utenti non possono più tornare indietro. Il programma inizia cambiando la password utente (il che significa che diventa impossibile riattivare il proprio account Facebook) e la foto del profilo utente. Poi procede alla rimozione di tutti i suoi amici, dei gruppi cui è iscritto e di tutti i suoi post. Infine, crea una pagina di commemorazione con una foto e poche parole d'addio e, per chi loro richiede, un video-ricordo del processo di cancellazione. Inoltre la Suicide Machine permette agli utenti di disconnettersi anche da Myspace, LinkedIn e Twitter. Ma a differenza di Seppukoo, e probabilmente per il carattere irreversibile dell'azione, la Suicide Machine avrebbe disconnesso finora "solo" 900 utenti, un numero che dopo lo stop di Facebook, arrivato nei primi giorni del 2010, non sembra destinato a salire di molto.

Difficile prevedere quale sarà l'esito della battaglia legale in corso. La principale contestazione che i legali di Facebook muovono ai due servizi è di fare phishing, cioé di utilizzare i dati personali dei suoi utenti e di farlo senza il loro consenso. I gestori dei siti rivendicano invece il diritto degli utenti di disporre come meglio credono dei propri dati personali.

Come dichiara a Repubblica.it Guy McMusker, art director e portavoce immaginario di Les Liens Invisibles, le richieste di Facebook "sono ingiustificate e nascondono la volontà di mantenere una posizione di monopolio nel sistema dei network e, soprattuto, nella conservazione e gestione dei dati dati personali che l'uso di questo sistema consente di ottenere a chi lo gestisce. In realtà - prosegue McMusker - le informazioni che risiedono sul sito seppukoo.com ci sono state comunicate volontariamente e coscientemente dagli iscritti a Facebook che ne sono gli unici titolari e che devono poter disporre di queste come vogliono; devono dunque avere la facoltà di poterle condividere con chiunque, anche esterno a Facebook e senza le imposizioni di Facebook."

www.repubblica.it

Google sotto attacco in Cina basta censura, ma rischia stop

Google minaccia di abbandonare la Cina. L'annuncio clamoroso è arrivato ieri dal quartier generale di Mountain View, nella Silicon Valley californiana, al termine di una escalation di tensione fra il colosso di Internet e il regime di Pechino. I vertici di Google hanno rivelato che il loro motore di ricerca - nella versione in mandarino - è stato fatto oggetto di attacchi sempre più frequenti da parte di hacker cinesi, che si sospetta siano al servizio della censura di Stato.

Gli attacchi più gravi, che hanno portato all'annuncio di ieri, hanno violato le e-mail di alcuni attivisti per i diritti umani, oltre che di grandi imprese occidentali. In un blog del gruppo, i dirigenti di Google ieri sera hanno rivelato di avere "scoperto un attacco mirato ed altamente sofisticato contro la nostra infrastruttura, originato dalla Cina". Ulteriori indagini interne hanno confermato che il bersaglio principale sono stati "gli account G-mail di diversi militanti per i diritti civili".

Google non ha esplicitamente accusato il governo cinese di essere il regista di questa violazione. Tuttavia la reazione del gruppo californiano non lascia dubbi. Infatti come risposta a questa offensiva senza precedenti, Google ha deciso che non filtrerà più le informazioni sul suo sito cinese. Interromperà cioè quella politica di cooperazione con le autorità della Repubblica Popolare che in passato era stata oggetto di polemiche negli Stati Uniti: secondo le ong che difendono i diritti umani infatti Google avrebbe praticato un "collaborazionismo" con la censura di regime, pur di avere accesso al mercato online più grande del mondo (così come Yahoo che arrivò a macchiarsi di delazione consegnando alla polizia cinese le email personali di un dissidente).


L'inizio della collusione con il governo cinese risale al 2006: è in quell'anno che Google inaugurò la versione mandarina del suo motore di ricerca, e quindi un sito che finisce col suffisso ". cn". Ma ora quel patto col regime è in crisi. Se Google cessa di filtrare il suo motore di ricerca in mandarino, con ogni probabilità il governo cinese ne bloccherà l'accesso e potrebbe oscurarlo definitivamente. In passato Pechino non ha esitato a cancellare la visibilità di Google, o di siti come Wikipedia, se non accettavano di "purgarsi" spontaneamente. Tra le richieste del ministero dell'Informazione cinese, per esempio, c'è la cancellazione dei siti che difendono i diritti del Tibet e dello Xinjiang. Per essere autorizzato a operare sul mercato cinese, Google ha quindi installato dei software che automaticamente evitano l'accesso a siti o a termini che sono tabù per la propaganda di regime. Un prezzo pesante da pagare, in cambio della possibilità di contatto con 300 milioni di utenti Internet: il pubblico online cinese ha ormai superato quello degli Stati Uniti.

Di fronte all'ultima provocazione, Google sembra avere valutato che il prezzo d'immagine da pagare verso l'opinione pubblica americana rischia di essere troppo elevato. Il motto dei fondatori dell'azienda di Mountain Valley, dopotutto, è "don't be evil", non essere malvagi.

Federico Rampini
www.repubblica.it